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Il pensiero ribelle

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Cosa possono avere in comune l’effervescente D’Annunzio, ebbro di azione e di pura estetica, e il cinico e disincantato Longanesi? L’aristocratico Gómez Dávila e l’indomabile Ezra Pound? L’ardente teorico russo Dugin e l’algido tedesco Thomas Mann? Lo spirituale ed ermetico Zolla e il sarcastico e pratico Guareschi? Il samurai Mishima e il poetante Heidegger? O anche Cioran e Corridoni, Spengler e Drieu la Rochelle, Carl Schmitt e Robert Musil e altri ancora?

A prima vista, poco o nulla. Eppure, questo arcipelago di pensatori, irriducibili ad una filosofia politica o ad una ideologia, mostra al suo interno talune connessioni e sorprendenti prossimità. Questi autori, per brevi tratti della loro vita o addirittura per l’intera esistenza, si sono collocati sul versante opposto di una linea tendenziale che incrocia liberalismo e progressismo (almeno per come li abbiamo conosciuti nell’ultima fase del Novecento), elaborando i contorni di un pensiero ribelle di cui, in questo libro, se ne setacciano le fondamentali diramazioni.

Non hanno mai rinunciato alla libertà intellettuale, anche a costo di esondare in termini di narcisismo, di egotismo a volte convertito frettolosamente in solipsismo e fuga dal mondo reale, rischiando spesso di far declinare il tutto nel pessimismo più cupo. Ma l’aderenza a fenomeni culturali e politici non è stata quasi mai contrassegnata da cupidigia, brama di potere, per comodamente assestarsi nelle tranquille e consolanti maglie di una ideologia. Hanno invece oltrepassato argini, divelto barriere culturali, costruito ponti tra fronti dicotomici quando pure sembrava impossibile, ma soprattutto si sono mossi in maniera autonoma da cricche intellettuali, partitiche e di altro tipo.

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